Il primo giorno di libertà. Il primo passo verso la fine della mia avventura in australia. 3000 km per andare ad omaggiare il simbolo della cultura aborigena nel mondo.
18 ore di macchina all’andata partendo da Adelaide, passando per Clare valley, Port Augusta e poi , nel deserto sud australiano, Cobeer Pedy la città mineraria.

Entrare nello stato del Northen Territory fino all’incrocio che dopo altre 3 ore ti porta a Uluru. Il tutto rincorrendo stazioni di servizio e quella striscia di cemento disseminata di cadaveri di animali e di macchine incidentate che è la Stuart Highway.
Uluru. Una roccia nel deserto. Un simbolo per qualcuno e un parco turistico per altri. Il tempo trascorso seduto in macchina, guidando, sonnecchiando, mangiando, scrivendo, predendo foto, tessendo ricordi. Tempo che mi è servito per prepararmi alla schietta e vera realtà in cui ci stiamo muovendo. Un parco archeologico dei divertimenti con villaggio turistico annesso. Centro commerciale, campeggio, albergo di lusso con piscina e attrazioni varie. Non ho mai avuto una connessione mobile migliore che come lì. E non mi sarei sorpreso di trovare una pista da sci per soddisfare tutti i desideri di un turismo atterra e scappa via. Fatto di cene romantiche a lume di un immensa luna australiana, bagnate con champagne, soddisfatte al palato da cucina raffinata e alla vista dallo spettacolo della “roccia” al tramonto. Idilliaco! Ma dopo un anno che vivo qui, ve lo dico. l’Australia non è questa!! Questo è quello che noi vogliamo trovare qui. Siamo così ciechi da volere vino in mezzo al deserto?? E perchè no! L’aria condizionata! E il supermercato per trovare il nostro prefertito marchio di biscotti per la colazione!? Almeno avessero organizzato un ristorante a base di cucina aborigena. Comunque Uluru è molto più bella da vicino. Calda, accogliente, con mille angoli di pace e mille rivoli di acqua formati dalla rugiada mattutina che, scivolando sulla sua superfice, si incanalano nelle sue pieghe e giunti a terra si trasforma in quella pozza di vita che la resa così speciale.
Terra ocra, perfettamente piana, che si allarga dalla roccia e passando attraverso una boscaglia alta solo qualche metro si estende fino al blu del cielo e da li nuovamente alla roccia in un circolo, che ti dona il senso dell’infinito. Quale modo migliore per capire che il tempo non esiste.
Divertente è stato lo scorgere sul volto di chi, trà gli altri turisti, riusciva a sentire le stesse mie sensazioni. Circondati da frotte di macchine fotografiche e da gente in posa ricordo, per qualche passo, giusto il tempo di un incrocio abbiamo condiviso la stessa emozione e siamo stati amici.
Comunque, camminare vicino a uluru cercando di sentirla e stata una gioia. Tristete invece è stato come la gente, incluse le guide turistiche, parla della cultura aborigena. Morta! Gli aborigeni sono gli uomini delle caverne australiani. Sono ancora vivi, presenti. Ma per la maggior parte è come se non esistessero più. Ed io mi sono sentito così stupido… stupido per essere andato così lontano alla ricerca dei nativi di questa terra e di non aver chiesto alle decine che ho incontrato per strada in uno dei cento giorni che ho vissuto da lavoratore in australia. Troppo impegnato per chiedere, magari spaventato da una bottiglia di vino pendente o da uno sguardo diverso che non chiede soldi ma che, in alcuni casi, capisce molto rapidamente cosa pensi di lui.
Il viaggio di rientro, come quello d’andata è servito. Come una sorta di stasi agrodolce nel quale si vedono passare kilometri di terra, infinitamente piatta.
Deserto, bush, laghi salati, colline sassose e più vicini alla costa, campi a grano, a orzo, pascoli affolati di bestiame e in disuso. Intense sfumature di rosso e di giallo abbinate ad un verde inusuale. La bellezza di un continente talmente grande che non viene espresso dalla sua gente o che parla talmente piano, che devi fermarti ad ascoltarlo per comprendere.
Per me questa e’ l’Australia!
Saluti
Simone Berliat